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Solomon
Utente Medio



Regione: Toscana
Prov.: Siena
Città: Siena


123 Messaggi

Inserito il - 06/05/2010 : 18:36:09  Mostra Profilo  Clicca per vedere l'indirizzo MSN di Solomon Invia a Solomon un Messaggio Privato
Genesi elegiaca

Solo. Nella cantina appena rischiarata dalla candela di sego cerco di non pensare alle saette, mi convinco che i roboanti tuoni che flagellano il cielo questa sera siano solo nella mia mente e non veri e terribili sopra la mia testa. Ma è impossibile: ogni boato è una scossa di terrore puro che mi fa vacillare. Potrei piangere se ne avessi la forza ma credo che non ci riuscirei.
Prima o poi dovrà cessare, è questo che mi ripeto…

Piero si portava continuamente la mano destra alla tempia, sfregando il palmo su di essa. Tra le dita stringeva una matita, la mano sinistra invece era aggrappata ad un blocco da disegno su cui erano stati abbozzati il profilo di una donna e la riproduzione della fiamma della candela davanti a lui, poggiata su un vecchio barile di assi inchiodati.
Il temporale durava da diversi minuti, ma Piero si era recato in cantina da molto prima. Era stato il primo a sentire nell’aria, assieme agli animali, l’avvicinarsi di una tempesta. Si era chiesto come mai tutta la gente per strada invece sembrava non accorgersene; il vento carico di pioggia gli aveva fatto immaginare un giovane e rubicondo ragazzino nascosto tra le nubi che soffiasse con foga fino a spingere nere nubi gonfie verso la città.
Nel pomeriggio era uscito per fare quattro passi, era giunto senza rendersi conto, perso com’era nei suoi pensieri, sulla riva destra dell’Arno, all’ombra del campanile della chiesa di Ognissanti. A quell’ora il quartiere era popoloso di uomini e donne intente a lavorare; dalle botteghe veniva l’odore del vetro lavorato e della lana. Fu come essere immerso immediatamente in una zona di suoni ed odori dopo aver trascorso un lungo tempo in assenza di stimoli esterni.
La folla lo mise a disagio, l’ombra di un carro gli sembrò una crepa spaventosa nella terra e alla mente ritornarono alcuni versi biblici che sapevano di dannazione e pentimento. Si mosse rapido trascinando le scarpe sul selciato della piazza; un ciuffo di lana, paglia e sudicio aggrovigliati insieme rotolarono davanti ai suoi piedi, Piero lo scavalcò nauseato ed entrò nel portone della chiesa.
Era fresco, ed illuminato dal sole che entrava dalle vetrate rettangolari della bianca facciata. Sulle panche sedevano poche persone, a sinistra alcuni giovani discutevano della pace che Papa Sisto IV aveva offerto a Firenze.
«Bisogna andare a Roma, questo è il momento giusto!» diceva un ragazzo dai capelli a caschetto neri e dal labbro leporino. Quello accanto scuoteva la testa in segno di dissenso, i suoi riccioli biondi ondeggiavano nel movimento. «Lorenzo sa che non è bene fare una cosa del genere, potrebbe essere controproducente per la sua persona, agli occhi di tutti è un eroe, non un eretico. Il papaccio è vecchio e non sederà ancora sul suo trono.»
Piero indifferente sorpassò i ragazzi, camminando nella navata centrale tra le due panche camminando cercando di non fare molto rumore, si strinse nella cappa gialla che lo avvolgeva guardando basso sul pavimento.
Sedette su una panca di destra, con le mani intrecciate e i pollici che si toccavano ad intervalli regolari come lancette di un orologio. Il silenzio religioso era interrotto a tratti dalle voci dei ragazzi e della gente nella piazza fuori; un brusio di preghiere monotono e costante veniva da alcune donne nelle panche a sinistra.
Piero tirò fuori da una manica della casacca un sacchetto di cuoio duro, prese dal suo interno un uovo sodo e cominciò a mangiarlo lentamente, seguendo con gli occhi i giochi delle ombre sugli spigoli dei candelabri o sulle pieghe dei paramenti rossi. Sulla seconda navata di destra erano state erette delle impalcature di legno e teloni bianchi coprivano la parete, si chiese a chi era stato commissionato l’affresco; sicuramente nella bottega del suo maestro se ne parlava da tempo, ma come molte delle questioni ordinarie a Piero non interessavano, era come se la sua mente improvvisamente, alla loro presenza lavorasse contemporaneamente su altri piani.
Immaginò su quel telo una fresca radura dell’Arcadia, con salici a coronarla, che agitavano le fronde in segno di saluto, e nel mezzo un Cenacolo, dove tutti i Santi gozzovigliavano in pepli larghi e colorati, celebrando una goliardica Eucaristia.
Il suono della campana lo riportò alla chiesa e alla realtà, aveva finito di mangiare l’uovo, e la sua mano era rimasta sospesa davanti la sua faccia con le dita chiuse come a reggere ancora qualcosa.
Si chiese che cosa sarebbe stato dipinto lì sopra e con fare meditabondo si diresse verso l’uscita.
La famiglia Vespucci possedeva quella parete e aveva contribuito molto alla vita della Chiesa, chi avrebbe potuto scegliere?
Fuori nella piazza Piero notò subito come le ombre delle cose si fossero allungate e di come nel cielo una luce più scura, di un tono impercettibile quasi si era sparsa.
Affrettò il passo: l’aria vibrava dell’annuncio di un imminente pioggia e lui non voleva restare per strada quando l’acqua sarebbe arrivata.
E l’acqua arrivò in un flusso dapprima lento, poi sempre più feroce e violento, come se l’intero cielo si stesse sciogliendo sulla città, ma Piero si era chiuso nella cantina, aveva sbarrato la porta e le due finestre della casa, barricandosi con una candela, un fiasco di vino, un cestino di uova sode, una coperta, un pitale e l’occorrente per disegnare.
Un pensiero però lo tormentava da quel pomeriggio, un ricordo che ritornava alla sua memoria con insistenza, triste come la canzone solitaria che Apollo sussurrò piangendo a Daphne tramuta in albero.
Era stata eletta reginetta di bellezza, si diceva che nessuna donna potesse competere con la sua beltà; con i suoi capelli ramati, il collo affusolato e la pelle del candore del latte più puro.
Per lei alcune delle personalità più importanti di Firenze avevano perduto il sonno e la ragione, ed erano stati costretti a creare in Suo onore canzoni e dipinti.
E poi tutto era finito.
Come la primavera fresca e audace, la giovane regina di bellezza, rosa di maggio, appassì così come era sbocciata, macchiando di rosso quelle virginali vesti, simboli ricorrenti che oscillavano tra pudicità e sregolatezza.
E con lei erano appassiti tutti gli altri: Angelo; Sandro - che alla famiglia di Lei aveva chiesto di essere seppellito ai suoi piedi- Giulio e lo stesso Lorenzo.
Si chiese se davvero tutti quegli spasimanti - platonici o meno – fossero stati ancora così attratti dalla sua figura, se avessero visto in che stato la madonna di bellezza senza pari, era ridotta negli ultimi giorni d vita: con la pelle scarna che aderiva al volto come un sudario grigio e umido, livido di morte annunciata.
E le labbra, quelle labbra così esangui, un tempo così tenere da ricordare ciliegie gonfie di succo dolce; ridotte al colore di una lapide consunta dal tempo.
Quanti di loro avrebbero continuato a cantare di lei in versi e colori, davanti al suo corpo disidratato dalla tisi?
Forse nessuno.
La morte era qualcosa di aberrante per loro, la giostra non doveva mai terminare: duelli e balli e canzoni all’infinito, in un perpetuo vivere dionisiaco che non lasciava tempo al corso delle cose, troppo lento e labile per poterlo seguire.
E quando la Nera Signora si presentava a reclamare lo scotto di aver vissuto, nessuno si voltava a guardare colui che era caduto, giacché la morte è cosa truce e su di lei non va gettata né ombra o luce.
C’erano state altre regine di bellezza dopo di Lei, radiose come albe di primavera, eppure nessuno pareva ricordarsi di loro; per nessuna erano state scritte stanze di armonie così perfette, né dipinto nascite a sua effige. Lei era stata l’unica, la sua presenza così breve aveva accentuato il suo ricordo, il ricordo però di una stagione: una primavera durata una giostra, variopinto come un banchetto e dall’odore di fiori appena sbocciati in una sera fresca di maggio.
Quella era la sola immagine che tutti volevano ricordare, nessuno aveva parlato della sua morte, o della sua sofferenza, forse qualcuno degli spasimanti; Sandro magari aveva pianto da solo nella sua stanza, sbronzo di mistica, immaginandola ascesa al cielo circondata di trascendente bellezza.

Signore Altissimo ed Eccellentissimo! Un fulmine è caduto qui vicino, e qualcuno ha urlato. Misericordia salvami, anche la fiamma della candela è sussultata, quanto durerà ancora?
Sono lì, ecco, le vedo! Le nubi nere che si muovono senza sosta, gonfiando ed espandendosi come fossero vive, ma dietro di loro ci sono candide nuvole che spingono quelle grette e scure lontano. La tempesta alfine è quasi terminata, lo sento. Eppure sopra di me infuria con maggiore vigore: forse gli ultimi aneliti feroci prima della sua scomparsa. Le pareti vibrano ancora della potenza della saetta scagliata; un sorso di vino placherà la paura e allontanerà gli ultimi timori. La luce della candela è più bassa adesso, il buio attorno si è avvicinato…

L’ombra di un chiodo che sporgeva da un lato della botte, correndo sul pavimento divenne un aspide nero che pareva danzasse in maniera ipnotica.
Piero seguì con gli occhi quella danza, il rettile si allungò fino a lambire la parete di fronte, dove due botti addossate furono per i suoi occhi l’immagine dei seni di Lei, piccoli e sodi; sopra di loro, un sacco attaccato alla mensola, seguiva una linea morbida divenendo il collo ed una gerla rovesciata assisa sulla mensola, la testa.
Il volto apparve lungo tutta la parete, le crepe e la muffa rendevano quel miraggio più vivido che mai. Una corda di canapa sottile, vecchia e sfilacciata sporgeva dal sacco, divenne una collana di oro scuro che cingeva l’esile collo, l’aspide andò ad attorcigliarsi proprio lì, in un connubio alchemico il nero e il giallo divennero quasi una cosa sola.
La testa sottile dell’animale scese con impudenza verso i seni, a bocca spalancata; era una scena che aveva il sapore della fatalità e ignara, Lei fissava lontano: i suoi occhi erano ben al di là dell’orizzonte, sconfinando nel labile sentiero della preveggenza, che aveva offerto ai suoi occhi panorami scintillanti in cui potersi dissetare.
L’ombra dell’aspide cercava di districarsi adesso dalla collana che lo tratteneva, scendendo sempre di più verso i seni, a breve il suo morso avrebbe sancito la fine dei sogni; di quello sguardo e di tutte le speranze nutrite.
Febbrilmente Piero tracciò alcune forme sul foglio davanti a sé, sembrava rapito dal significato di quella visione tanto da procedere a scatti, come in estasi.
Tornò a fissare la visione istanti dopo, ma Lei era svanita.
Le botti, il sacco e la gerla erano solo sé stessi, e le loro ombre proiettate sul muro vecchio e marcio apparivano misere e banali.
L’aspide aveva morso?
Sapeva la risposta. E sapeva che non sarebbe servita. Il temporale, si accorse, era davvero cessato; Piero trasse così un lungo respiro, osservando gli schizzi sui fogli: un profilo di donna dal petto nudo e dal collo cinto da una collana ed un aspide avvolti insieme, tutto era abbozzato ma deciso nel suo significato: l’istante in cui Primavera finì.


"Quod in aeternum cubet mortuum non est,
Et saeculis miris actis etiam Mors perierit"

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Prov.: Taranto
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3659 Messaggi

Inserito il - 10/05/2010 : 23:28:48  Mostra Profilo  Visita l'Homepage di Amministratore Invia a Amministratore un Messaggio Privato
Complimenti a Solomon. La storia mi ha incuriosito e ho ritrovato il quadro, poi ho visto che Solomon lo aveva già messo nel suo blog http://apprododelre.blogspot.com/2010/05/normal-0-14-false-false-false.html.

Il ritmo è incalzante, mi sono fatto prendere dalla lettura che risulta piacevole nonostante il lessico dotto e variegato.

"Fatti non fummo per viver come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza"
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